Non è mai facile parlare di Samurai, la loro figura rappresenta nell’immaginario collettivo la perfezione del guerriero, l’emblema della fedeltà al proprio padrone, di moralità quasi divina che in caso di mancanze si toglie la vita con il rituale del Seppuku. Rappresentano l’emblema di un popolo, quello giapponese, che sulla collettività e sul rispetto delle regole del proprio stato fonda tutta la sua società. In Giappone si tengono costantemente raduni di samurai, il più famoso è il Festival di Shingenko che rievoca la famosa battaglia in cui morì Takeda Shingen, considerato uno dei più potenti Daimyo della storia giapponese, sconfitto dalle forze di Tokugawa Ieasu. Per le strade di Kofu sfilano più di 1000 persone con l’attrezzatura samurai. Questo è un segno che il popolo giapponese non vuole dimenticare ciò che è parte della loro storia, della sua tradizione e della cultura del proprio paese.
La casta guerriera dei Samurai, del resto, ha dominato il paese per più di 700 anni ed è quindi comprensibile come tutt’oggi parte della formazione della popolazione attinga anche dai loro principi. Ma come ha fatto una casta di guerrieri ad imporsi come modello filosofico e religioso per così tanto tempo? La risposta la troviamo nella loro storia e nella storia della loro terra. In primo luogo la posizione geografica del Giappone ha favorito il suo lungo isolamento, consentendo a una società sostanzialmente feudale di sopravvivere finno all’Ottocento, favorendo guerre e lotte interne che permisero alla classe guerriera dei Samurai di assumere un’enorme importanza.
I Samurai nascono come guerrieri latifondisti che avevano il compito di difendere le terre del proprio signore (Shogun). La loro educazione era quindi esclusivamente militare. Fin dalla più tenera età venivano addestrati alle arti guerriere sia della spada che a mani nude in modo da poter difendere in maniera efficace i confini del latifondo.
Con l’inizio dell’era Tokugawa, proprio dopo la famosa battaglia, la casta guerriera iniziò a perdere la propria funzione militare, potendosi così dedicare a molte altre arti come la cerimonia del tè, lo shodō (arte della scrittura), la letteratura e la religione. Divennero così una casta colta che riuscì quindi ad avere moltissima influenza sulla popolazione. In questo periodo non mancarono certo i samurai ronin (parola che ha sempre un significato dispregiativo), ovvero i senza padrone, che si dedicavano a scorribande e a saccheggi.
Durante il periodo Edo, caratterizzato da una maggiore stabilità e chiusura verso l’esterno, i Samurai si trasformarono essenzialmente in burocrati al servizio dello Shogun per poi essere definitivamente aboliti nel periodo Meji (fine del XiX sec.) dove venne costituito un esercito in stile occidentale.
Un forte contributo al loro declino lo diede l’evidente disparità tecnologica tra oriente e occidente, messa in luce dallo sbarco del commodoro Perry con la sua flotta navale, che diede vita poi ai famosi trattati ineguali.
L’essere una casta colta ha permesso in un certo senso di conservare la memoria di questi guerrieri fino ai giorni nostri trasformandoli in vere e proprie leggende. La cultura permette spesso di riuscire a giustificare gesta e azioni che potrebbero apparire barbare e riprovevoli in qualcosa di mistico, come l’arrivare ad affermare che l’anima del samurai risiede nella sua katana.
Il cinema ne ha poi ripreso le gesta, uno su tutti il grande regista Akira Kurosawa, che con il suo capolavoro “I sette Samurai” ha portato in occidente un pezzo di storia Giapponese, improntata al realismo storico, soffermandosi sul fenomeno dell’assoldamento di ronin da parte dei contadini per difendersi dalle razzie dei briganti. Zatoichi di Takeshi Kitano, che narra la storia di un massaggiatore cieco (figura abbastanza comune nel Giappone feudale) che in realtà è un ronin che si trova a cercare di aiutare sempre un piccolo villaggio di contadini conteso tra due bande criminali. Non si può non citare “L’ultimo Samurai” che pur essendo un buon film, soffre la classica infarcitura di stereotipi hollywoodiani che quasi cadono nella soap opera fino al ridicolo incontro finale con l’imperatore.
Il Bushido, codice di condotta che diviene stile di vita adottato da questi guerrieri, ha avuto, e tutt’ora ha nel vivere quotidiano giapponese, un’influenza straordinaria: onestà, lealtà, giustizia, compassione, dovere, coraggio, sincerità, eroismo, onore, gentilezza e cortesia, sono valori nei quali la società giapponese vuole continuare a riconoscersi. Spesso da noi occidentali questo atteggiamento viene percepito come una sorta di annullamento dell’individuo davanti a un qualcosa di superiore (lo stato); ma non è così, il Bushido viene inserito in una logica di società dove le sinergie si incontrano per aumentare il benessere sociale, che poi sarà quello dell’individuo.
Il mondo occidentale, spesso fatica a comprendere questo aspetto. Del resto lo stato è stato sempre percepito come oppressore. Gli stessi Stati Uniti per come li conosciamo nascono come ribellione verso la madre patria, i coloni vedevano nel nuovo mondo la terra promessa, la possibilità di realizzarsi, finalmente liberi dalla burocrazia che impediva la piena realizzazione dell’individuo.
Per un Giapponese lavorare per lo Stato è un onore, la carriera burocratica (kanryo) è considerata una funzione d’elite, con una rigidissima selezione per essere assunti e i pochi che riescono ad ottenere il posto, si impegneranno per dimostrare di averlo meritato.
Dalla scomparsa dei Samurai sono successe molte cose, da paese sostanzialmente agricolo e latifondista, il Giappone è risuscito a diventare uno stato moderno, capace di risollevarsi anche dalla sconfitta della seconda guerra mondiale, riuscendo a diventare la terza economia mondiale. Ma lo spirito dei Samurai non è stato cancellato, continua e continuerà a vivere nel Giappone per ancora molto tempo.